Il tennis e le scienze del caos. Il campione è un’anomalia

Non potrebbe essere altrimenti. La normalità, se ci basiamo sull’informazione statistica, è quella di vincere e perdere in modo equilibrato e non quella di segnare record o essere sconfitti poche volte. Se disponiamo su una linea i risultati degli atleti agli estremi troviamo le due irregolarità. Le eccezioni di chi vince sempre e di chi al contrario è sempre sconfitto. Nel mezzo ci sono coloro che rientrano nella norma e quelli che, ai lati, gradualmente raggiungono le eccezioni più marcate. Tecnicamente, a una analisi asettica, chi perde sempre non è diverso dal campione. L’unica dissomiglianza è nel valore che comunemente viene attribuito a chi vince: un’anomalia piace mentre l’altra no, anzi è in alcuni casi, non infrequenti è denigrata e con lei chi la evidenzia: l’atleta se così può essere chiamato. Piace l’eccezionalità in senso e non nell’altro ma tale attribuzione di valore è puramente arbitraria. Non è improbabile che tra due persone che cercano la sconfitta perdere richieda delle qualità non poco. Ma piacciono coloro che vincono e quindi per cercare l’eccezione in un senso invece che nell’altro si è disposti a tutto. Sarebbe invece divertente osservare competizioni dove i trucchi per vincere debbano essere abbandonati perché è perdere che conta. Ci sarebbe un doping alla rovescia? Una ricerca sofisticata per ridurre le prestazioni? Si cercherebbe l’incapacità con la stessa bramosia con cui si cerca l’abilità? Ma potremmo definirla un’attitudine inversa. Nel tennis il più bravo a tirare fuori vincerebbe e nel colpire una parte del terreno invece di un’altra potrebbero essere necessarie delle doti rovesciate. Viviamo del valore che attribuiamo alle cose: chi vince e bravo e chi perde è scarso. Finisce qui, indagare il resto è superfluo ma questo non cambia la realtà che chi vince sempre, segna record uno dietro l’altro è fuori dalla norma indipendentemente dal valore che diamo a tale rarità. Siamo pieni di rarità in questo pianeta alcune rendono le persone che le posseggono dei miti altre dei perseguitati. Avere la pelle più scura dove tutti l’hanno chiara, i capelli rossi dove la maggior parte sono mori, essere brutti in un mondo di belli, essere “diversamente abili” in mondo abili in un mondo di abili, essere di una religione diversa da quella della maggioranza. La diversità è stata ed è fonte di discriminazione ma la stessa diversità a volte, e non meno arbitrariamente, è fonte di fortune al limite di essere considerati delle divinità.

 

A volte tutto inizia a causa di una sciocchezza e termina con una tragedia o la glorificazione. Trionfo e rovina sono le conseguenze dell’esaltazione del dover essere, della considerazione positiva o negativa che prescinde da un’analisi della realtà svincolata dall’ansia di attribuire un merito o un demerito, una positività o negatività, a ogni azione, a ogni realtà, a ogni differenza, a ogni abilità. Troppo spesso il giudizio è un pregiudizio privo di ogni giustificazione razionale, mentre al contrario la logica è piegata alla difesa di un preconcetto.

 

Ci sono alcune domande che sono molto intriganti affinché si conosca cosa permette di eccellere in un senso o nell’altro, in positivo o in negativo (i termini sono qui usati solo per indicare un differenza e non un valore). Quali sono le cause della differenza? L’esaltazione e la discriminazione sono necessariamente e sempre giustificate da differenze enormi? Se fosse una piccola differenza la causa di tutto il consueto modo di analizzare, magnificare o biasimare, all’estremo accettare o discriminare, non sarebbe ancora di più reso irragionevole. Se queste piccole differenze offrissero i propri vantaggi solo in determinate circostanze non sarebbe ancora più insensato pensare un uomo di colore come inferiore solo perché una pigmentazione più scura lo protegge da un eccesso di luce solare?

 

Se il campione e la schiappa fossero separati all’inizio da un’insignificanza la glorificazione eccessiva sarebbe paradossale, così com’è irragionevole ogni forma di esclusione sociale che si basa su una diversità da nulla che appare ingigantita solo perché osservata attraverso la lente del pregiudizio.

 

Ogni spiegazione razionale è altamente corrosiva di ogni tipo di mito. Ma questo modo di vedere lo sport è imprescindibile in una società che desideri dirsi moderna e in cui si riesca a essere consapevoli che esaltare una piccola anomalia è solo il lato della medaglia più bello. Sull’altro la stessa dinamica consente di arrivare alla discriminazione di chi è leggermente diverso, se si considera che in due individui dal colore della pelle diverso le differenze genetiche sono una minoranza, il resto è similitudine. Nella sostanza siamo tutti africani. (807)

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