I tre. Federer, Nadal, Djokovic e il futuro del tennis

da linkiesta.it

“I tre. Federer, Nadal, Djokovic e il futuro del tennis” (66th&2nd), di Sandro Modeo, p. 224, 18€

La vittoria di Joker Novak Djokovic, l’uomo bionico che ha rotto il duopolio di Federer e Nadal.

 Nole ha vinto il suo decimo Australian Open, il ventiduesimo Slam, e sembra sempre più affamato di titoli.

In “I tre” (66th&2nd) Sandro Modeo ne fa un ritratto introspettivo, tecnico e anche politico

Sarebbe sicuramente eccessivo e forzato – o almeno sfocato – vedere nell’entrée e negli sviluppi di Novak Djoković una «sintesi» tra tesi (RF) e antitesi (RN) dei due Big che l’hanno preceduto. Diversi suoi tratti morfologico-atletici lo rendono più prossimo a sua volta a un supereroe, quindi alla «modernità» di Rafa: con la sua massa magra da longilineo (la grassa non supera il 3%, con grandi vantaggi a livello di metabolismo aerobico) e la sua leggendaria reattività neuromuscolare, con elasticità da contorsionista, può ricordare altre figure Marvel (come Reed Richards alias Mister Fantastic dei Fantastic Four) o DC Comics, come lo snodato Plastic Man o Eel, «anguilla», che può allungare-plasmare il suo corpo in modo polimorfo oltre a disporre di «forza e resistenza sovrumane».

Anche tecnicamente e agonisticamente – fuor di metafora – Nole ha più tratti prossimi a Rafa: il rovescio bimane (ma da destrorso), il fondocampismo di base (a lungo aggressivo e proattivo, oggi un po’ meno), la scarsa attitudine alla rete (in anni recenti al contrario un po’ accentuata), la capacità di focalizzazione «paranormale» sui punti decisivi. Se non di Roger, di un simil-Roger (ma non ditelo ai fan dello svizzero), ND ha invece qualche tratto, accentuato nel tempo, a suo modo classico: il biancore del completo Lacoste, il cappellino rigorosamente a visiera davanti (non sulla nuca, come negli eretico-anarcoidi, tra cui il Roger teenager), un controllo psicologico e un aplomb glaciale quando non luciferino. Con qualche eccezione: le lacrime al franare del possibile Grande Slam nello US Open del 2021, annientato da Medvedev. Il punto, però, è un altro. È che il suo ingresso sulla scena – in conformità col suo nickname principe, il Djoker – ottiene via via l’effetto di avvolgere davvero la contesa dei Tre sotto il cielo dark di Gotham City; in più, di avvicinare a tal punto Roger e Rafa da farne non diciamo Batman & Robin (non esageriamo), ma comunque degli alleati paradossali contro di lui, quando tutti sanno, nel circuito – anche se è un tabù dirlo – quanto l’«amicizia» di RF e RN sia in parte autentica e profonda, in parte foderata di gentile ipocrisia.

Tra i motivi di conflitto non superficiale, si ricordi almeno quello normativo-istituzionale, con Rafa che spinge a lungo per un minor numero di tornei obbligatori e classifica ATP biennale anziché annuale, e Roger contrario (vincerà lui). Le tensioni di questo triangolo psicologico scaleno diventato nel tempo quasi isoscele risalgono (lo riassume bene Adriano Panatta nel primo dei suoi due godibili libri con Daniele Azzolini, Il tennis è musica) all’affermarsi del Djoker negli anni a seguire il primo Slam, Australia 2008: cioè alle imitazioni dei «colleghi» (su tutti proprio Rafa e i suoi tic) o agli spettacolini a fine serata coi tennisti in veste di cantanti e comici (vedi Montecarlo). «Ma come, ci batte e poi ci prende pure per il culo?»: il vertice del circuito non gradisce, e delega Roger in persona per invitarlo a smettere. A questo, si aggiunge l’irritazione diffusa e crescente per il suo uso del medical time-out: tristemente memorabili i 5 (cinque) utilizzati nel 2005 contro Monfils, match poi vinto dal Djoker 7-5 al quinto, con tanto di ammissione che non si sa se valutare più onesta o più sfacciata («Mi hanno indubbiamente aiutato; so che per il pubblico può essere irritante, ma non avevo altra via per vincere il match»).

E ancora più sintomatica la tensione con Andy Roddick, che agli US Open 2008 prima sfotte il Djoker in pre-partita per le sue pantomime agli ottavi contro Tommy Robredo (parla di infortuni non «alla caviglia», come vorrebbe l’ufficialità, ma «alle caviglie, alla schiena, all’anca, i crampi» e poi «antrace, aviaria, influenza comune…»); ancora, dopo aver perso con lui (come Monfils) al quinto e sentendosi provocato, lo raggiunge negli spogliatoi e lo «appende all’armadietto», ritraendosi solo per la stazza intimidatoria di uno dei trainer del serbo. C’è poi, a tutto questo, una coda meno grottesca e più velenosa: nel maggio 2011, il Djoker schianta RN nella finale del Mutua Madrileña, e lì – nella tana del maiorchino, cioè nei viali intorno al campo – fan serbi deridono pesantemente Rafa, spingendosi fin sotto il suo spogliatoio. Il «Rafa furioso» organizzerà la sua risposta poco dopo a Roland Garros, quando – durante la semifinale tra RF e il Djoker – si piazza in tribuna «a incitare Roger», godendo pubblicamente della lezione impartita al serbo: 7-6, 6-3, 3-6, 7-6, con molti «Momenti Federer», secondo alcuni la vetta di sempre del suo tennis. Ci penserà poi lui a regolare lo svizzero in una finale tra «pari grado».

Il passaggio decisivo, nella ricezione sociale del Djoker, è come l’avversione nutrita per lui dagli altri due Big Three diventi nel tempo avversione nutrita dall’intero bacino degli appassionati di tennis e di sport, o almeno da una maggioranza consistente. Le ragioni sono varie, alcune già intraviste, altre distribuite nel tempo: la durezza serba (leggi slava), inseparabile da un «tremendismo» agonistico a sua volta inseparabile da un aggressivo nazionalismo-sovranismo; il suo tennis meno caratterizzato e (almeno in superficie) più opaco, meno estetico di quello di Roger e meno «elettrico» o eroico di quello di Nadal, al punto da rendere le sue vittorie – come ha riassunto anche Kyrgios – frutto di un’inerzia «inspiegabile»; e di recente, a sintesi e detonazione di tutto, la battaglia antivaccinale combattuta a colpi di libertarismo equivoco e fragili teorie para-scientifiche new age, che gli è valsa l’assenso di più o meno estese fasce sottoculturali (non solo in Serbia e «a Est»), ma anche il dissenso, spesso venato di incredulità, di ben più estese maggioranze «vaccinate». In più, o meglio a integrazione del suo atteggiamento sfottenteirridente, c’è quello – opposto solo in apparenza – del suo maldissimulato e goffo paraculismo, concentrato nell’immagine del Djoker che distribuisce cioccolatini alle conferenze stampa (con molti giornalisti imbarazzati che preferiscono seguirle dai monitor o dai pc).

Ma il peccato – il reato – principe è proprio l’incunearsi da «intruso» nella perfezione insieme platonica e materiale dell’opposizione Roger-Rafa, già da molti profilata come un aggiornamento di sistema di quella Sampras-Agassi: e di farlo coi suoi modi. Per quanto rare, le rivalità sportive a tre (o a quattro) non sono infatti mancate. Abbiamo già visto i «favolosi» pesi medi degli anni Ottanta, e in fondo anche l’opposizione Borg-Mac ha dialogato col «terzo uomo» Connors; solo che da un lato quella triangolazione è abortita presto (con Borg – annientato da Mac a Wimbledon ’81 – che si ritira a ventisei anni), dall’altro Jimbo era un grande outsider, o almeno era percepito come tale.

Il Djoker invece esercita una «rottura di simmetria» osando addirittura candidarsi a goat o almeno a maoat (Most Accomplished Of All Times, il più vincente); frantuma – da supervillain – non tanto o non solo il manicheismo ideale (tale perlopiù per i fan dell’Apollo), quanto l’armonia tra lo Ying e lo Yang del tennis, cui non solo la Nike è ormai irrimediabilmente affezionata. E per finire, si macchia del «reato dei reati»: la vittoria a Wimbledon contro il Divino in un 14 luglio (2019) che per i fan di RF ha soppiantato la data della presa della Bastiglia (vittoria del Djoker per 7-6, 1-6, 7-6, 4-6, 13-12). (389)

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