Murray e la Gran Bretagna conquistano la Coppa Davis dopo 79 anni: storia di cuore e di sport

 

Ci voleva uno come Andy Murray per riportare in Gran Bretagna, dopo il trofeo di Wimbledon, anche l’insalatiera della Coppa Davis. Uno dei paesi con più grande tradizione tennistica al mondo aveva dovuto aspettare 77 anni perché un britannico vincesse Wimbledon. E ora dopo 79 la nazione della Regina Elisabetta torna a vincere grazie allo stesso fantastico giocatore anche la Coppa Davis. Back the Brits.

Poco importa quindi che Murray solo pochi mesi fa si fosse attirato non poche critiche schierandosi apertamente a favore dell’indipendenza della Scozia in occasione del referendum. Quando c’è stato da unirsi intorno ad un unico obiettivo non si è tirato indietro dal rappresentare i colori della Gran Bretagna intera.

E non è certo una questione di opportunismo, quanto piuttosto è che lo sport è uno dei pochi valori a unire davvero in vista di un unico sogno. Allora è ancora più importante che questa finale si sia giocata proprio in Belgio, dove alcuni dei terroristi coinvolti nella recente strage di Parigi vivevano e dove per questo motivi la paura regna da giorni. Senza contare che Murray stesso da bambino è scampato ad un attentato terroristico e questo weekend si è ritrovato a giocare tre delle partite più importanti della sua vita in un contesto blindato. Per fortuna stavolta c’è stato da parlare solo di sport.

Sono stati tre giorni intensi e come sempre emozionanti. La Coppa Davis porta sempre alla ribalta protagonisti inaspettati, e anche se poi alla fine il miracolo non accade tutto va secondo pronostico, come in questa occasione è accaduto, sono sempre tante le cose su cui poi riflettere.

La prima e la più semplice è che Murray ha portato a casa insieme ai suoi compagni di squadra l’ennesimo trofeo importantissimo della sua carriera, dopo due Slam e l’oro alle Olimpiadi. Vedere un grande campione lottare per la Coppa Davis e commuoversi dopo averla conquistata è sempre emozionante e fa capire come questa competizione sia lungi dal morire, come qualcuno cerca invece di far credere. Non ogni anno tutte le nazioni che contano sono al meglio, capita che in alcuni periodo ci siano più difficoltà perché i top player preferiscono concentrarsi sui risultati individuali, ma prima o poi a turno tutti provano e vincerla e a quel punto ci mettono l’anima. E la gioia alla fine è sempre grande, come hanno dimostrato  le vittorie nel tempo di Nadal e compagni, di Berdych e Stepanek, di Djokovic con la sua Serbia. Abbiamo ancora negli occhi le immagini di Federer che cade a terra in lacrime l’anno scorso dopo aver conquistato il punto decisivo e la stessa identica felicità è oggi toccata ad Andy Murray.

Il match con Goffin è stato di alto livello soprattutto nel secondo e terzo set. Goffin, commosso e deluso dopo la sconfitta, sempre sotto pressione in questi tre giorni, ha giocato un’ottima partita, mostrando il suo tennis così diverso dagli altri. È un giocatore prezioso nel panorama moderno che non sempre si distingue per varietà.

Partito anche oggi un po’ emozionato, il belga ha servito in modo decisamente non sufficiente all’inizio del match e il primo set è scivolato via 6-3. Già nel secondo set Goffin ha opposto una maggiore resistenza. Murray sul proprio servizio è stato ingiocabile, ma Goffin è riuscito sempre a difendere il proprio, costringendo il numero due del mondo a raggiungerlo sul 5-5, per poi però cedergli il passo ancora una volta 7-5. Nel terzo, nonostante un break subito sull’ 1-2 e un Goffin decisamente più ispirato e aggressivo, Murray non si è lasciato in alcun modo distrarre dalla vista del traguardo finale e ha chiuso con uno spendido lob simbolo del suo immenso repertorio di colpi.

L’ottima annata in doppio del fratello Jamie e il contributo occasionale di altri compagni di squadra (come l’epica vittoria di Ward su Isner conto gli Stati Uniti al primo turno) sono stati tasselli importanti di questo successo che è sicuramente di gruppo. Ma è stato ovviamente Andy la punta di diamante della sua squadra, fondamentale e solido in ogni sfida. Ha dato sempre certezze e ha dimostrato un’attitudine che spesso gli è invece mancata in singolare nei grandi momenti della sua carriera negli ultimi due anni, dalla vittoria di Wimbledon del 2013 in poi. Se mettesse nel cassetto la mentalità trovata in questi tre giorni e la conservasse fino agli Australian Open, sarebbe un giocatore diverso quello che ci troveremmo di fronte l’anno prossimo, e di cui il circuito avrebbe un immenso bisogno.

Murray ha un fisico incredibile, e un pari talento. La sua capacità di variazione è decisamente maggiore di quella di Djokovic e soprattutto è in grado di verticalizzare quando vuole, ed è perfettamente a suo agio nel gestire la situazione a rete. Che non sia questa la sua attitudine di gioco si è capito da anni ed è vero che per un giocatore snaturarsi è sempre difficile. Ma nel suo caso la base c’è tutta e allora, poiché è ormai evidente che di fronte alla ripetitiva perfezione di Djokovic questo Murray non basta, dovrebbe finalmente decidersi a cambiare marcia e a prendere l’iniziativa più spesso, accorciando gli scambi e provando a imporre il suo gioco. In fondo, è quello che quasi tutti aspettiamo da anni. Che gli serva un Edberg?

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